La prima versione:
Buio. Buio su tutta la città, che ostenta una calma di morte. In
cielo soltanto la luna...e un'ondata nera, un'ondata che si adagia
con un riverbero di fiamma sui tetti dei palazzi, lasciandoli
sventrati e fumanti. Sordi giungono, fendendo la brezza della notte,
i sibili agghiaccianti delle bombe. Il fragore immane attraversa la
città, i vetri delle finestre si frantumano, la terra trema sotto i
piedi: è l'8 agosto 1943, una gigantesca bomba è appena caduta sui
palazzi di via Accademia Albertina, una "cortesia" della
RAF, che ha distrutto il Caffè Nazionale, abituale ritrovo di
artisti conosciutissimi. Caro alle nostalgie dei torinesi, fu tra i
"covi" risorgimentali dove una società colta chiacchierava
di politica, arte ed avvenimenti quotidiani. C'era il sole allora,
c'era chiasso e baccano. E il Caffè non era, come adesso, un cumulo
di brutte macerie. Il Caffè Nazionale era di una finezza da
capogiro: aveva marmi, dorature, specchi, divani rossi, tavolini di
marmo e delicati servizi di porcellana. Un gioiello neoclassico ricco
di fervori artistici e intellettuali che, con sorprendente chiarezza,
desidero rievocare come un'esperienza emotiva. Perché la strana
sensazione di sentirsi struggere per un luogo che non si è mai visto
e che, senza ombra di dubbio, non si vedrà mai, s'impone nella mia
mente, e con essa la magia di esser trasportato fin là, come
spettatore o testimone, guidato dalla voce di mia nonna. Ed è con
questo trasporto che vedo emergere, da sotto i porticati severi di
via Po, il pittore Giovanni Giani e, dalla sua descrizione, immagino
il suo volto calmo, in equilibrio con l'intensità della sua dolcezza
e l'aspetto piuttosto bassotto e tarchiato. Al Caffè Nazionale, come
di consueto, ci sono ad attenderlo gli "amici del Venerdì":
lo scultore Cesare Biscarra, l'impresario del Regio Alessandro
Borioli e il fratello Daniele, il dottor Carlo Gallia (mio bisnonno)
e il Procuratore del Re di Torino Eugenio Colonnetti. Stretto nel suo
paltò liso, il Biscarra ha appena interrotto una conversazione su
bracchi, spinoni, segugi: avrà forse intuito confusamente la mia
presenza, adesso che l'occhio mi è caduto sul ritratto del "Vecchio
Tell", appeso in salotto? Mentre così penso mi accorgo di
colpo, come se lo stessi osservando per la prima volta, che quel
dipinto s'intromette nella mia visione: il pelo è variegato di un
rosso acceso, tra le fauci vi è un uccello e, in contrasto con
l'oscurità del bosco, sembra quasi un fantasma. Ma allo stesso tempo
il suo muso esprime un vivo calore animale, ed è rivolto a mia
nonna, il cui racconto richiama a sé gli oggetti di quel lontano
periodo. Ecco perché, se osservo quel bronzetto che la ritrae
adolescente, e che occhieggia dal tavolo, mi sembra abbia qualcosa di
diverso. Lo sento vibrare di vita propria quando penso che, per
fermare con la creta la figura di una bambina impaziente di tornare a
giocare, il Biscarra era venuto a casa e l'aveva fatta posare in
piedi, issandola sopra un'asse da stiro. Tuttavia può talvolta
accadere che dei pensieri lasciati cadere nel buio del passato non
senta l'eco, allora mi basta dare un'occhiata ad un'altra opera, un
grande scorcio della Val D'Ayas, realizzato dal Giani: sembra voler
diffondere un senso sereno della vita e un inossidabile attaccamento
al suo lavoro (mio bisnonno gli aveva solo chiesto un semplice
bozzetto per un fondo da presepe). Mentre il brusio si solleva
e inghiotte le parole del gruppo, posso girarmi e vedere camerieri
dai solini inamidati andare qua e là indaffarati, e percepire un
profumo di brioches e di tabacco che aleggia nell'aria. Al di là
delle grandi finestre, scorgo un paio di uomini che discorrono
silenziosi, ma guardinghi: è la scorta di Sua Eccellenza Eugenio
Colonnetti, un magistrato che avendo risolto delle questioni di
malavita gira sotto protezione. Intanto l'impresario Borioli guarda
verso la strada. L'arrivo di un carretto spinto da alcuni pazienti
del Cottolengo gli avrà riportato alla mente l'incursione fascista
che interruppe il Boris Godunov, diretto dal buon Viktor Žurov.
Starà riflettendo sul contrasto stridente che passa tra la
bestialità imperante e la gentilezza di quegli uomini magri, dagli
occhi infossati, che percorrono la città raccogliendo la "madre"
del caffè per riciclarla. Dentro è un continuo rumoreggiare di
stoviglie, di voci, di musica. E, ad un certo punto, in quel luogo
esistito all'interno di un'epoca irripetibile, e così ricco di
fervori artistici e intellettuali da meritarsi l'attenzione di un
grande, come John Storm a Montmartre, sommerso da un turbinio di
apparizioni, variegato da un alternarsi continuo di luci ed ombre,
irrompe per unirsi al gruppo un paio di baffoni: l'immenso Giacomo
Grosso. Ma a questo punto è già troppo tardi, la luce sta cambiando
e il suo volto serio, ragionevole e conscio del proprio valore, si
tramuta nello sguardo dissennato di uno, cento vigili del fuoco che
non vedono: bisogna farsi schermo con la mano per il calore emanato
dagli spezzoni incendiari, il fuoco che lacera la visione. Sarà
forse il caso di spegnerlo, portando il silenzio nel cuore e nella
mente, affinché le memorie di quel buon tempo antico riposino ancora
in uno splendore di dolce malinconia.
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