Off-Topic: Mitica Teresa


Un altro mio articolo sulla Torino anni Trenta, apparso lo scorso anno su To7 La Stampa, ricavato da una "bozza" iniziale dedicata al lavare e... al lavarsi! Buona lettura a tutti :-)



Prima versione:

Per la maggior parte di noi giovani, fare il bucato significa infilare la biancheria in lavatrice e basta. Questo vale anche per i meno giovani, molti dei quali generalmente sanno come preparare un carico, suddividendo la biancheria e impostando il programma corretto. E ignorano che, fino a pochi decenni or sono, il lavaggio dei panni comportava un lavoro molto faticoso, lungo e impegnativo, relegato perlopiù alle donne. In passato spesso per lavare la biancheria si doveva ricorrere a chi, per mestiere, lavava i panni per tutta la città. Mia nonna me ne parla ella stessa, raccontando di quando i Necco, una famiglia di lavandai di Borgata Bertolla, il lunedì arrivavano per consegnare la biancheria pulita e ritirare quanto si era accumulato durante la settimana: si assisteva ad un via vai, in ordinata fretta, di sacchi pieni di vestiti, pesanti lenzuola di canapa, tovaglie e pannolini, ciascuno dei quali era contrassegnato con un filo annodato di diverso colore. Quindi se ne ripartivano tutti quanti montando su di un carretto trainato dal cavallo. Erano gli anni Trenta e mia nonna, figlia d'un noto medico, abitava con i suoi genitori in via Po 39, angolo via Montebello in un grande appartamento per metà adibito ad ambulatorio. Cari alle vecchie abitudini, anziché ricorrere al lavoro organizzato, come del resto facevano gran parte dei condomini (fra i quali c'erano l'attore Tino Buazzelli e Carla Voltolina, futura moglie del Presidente Pertini), preferivano rivolgersi ad una lavandaia di fiducia, Teresa detta "La Veja", una figura un po' mitica, una donna distante, ma cordiale, di poche essenziali parole. Ella si limitava ad un "ciareabun dì" dando a vedere di non voler perdere due minuti per una chiacchiera e il suo riserbo era tipico di quelle persone discrete per natura che, invecchiando, lo diventano oltremodo. Con un nome come il suo sembrava impossibile immaginarsi il tempo in cui fu giovane, eppure la conoscevano da una vita intera. Il corpo minuto, i capelli grigi raccolti in una crocchia, irrompeva nell'ambulatorio scura scura e silenziosa come un piccolo uccello ruzzolato discretamente giù dal camino, ritirava il bucato chiuso in un sacco e scompariva.  
Anche se di lei si sapeva ben poco, è facile immaginarla sotto i portici, come in un quadro di Demetrio Cosola, allontanarsi carica carica con il suo sacco, l'asse e il "sebrot", facendosi sempre più piccola verso le rive del fiume Po. D'altronde la sua era di quelle professioni di un tempo, ormai estinte, se non fra i puristi dell'olio di gomito, ma tra i mezzi con cui ci si arrangiava bisogna dire che esistevano dei veri e propri ritrovati tecnologici, in grado di tener testa agli odierni elettrodomestici. Nei fine settimana e durante tutto il corso dell'estate, la famiglia di mia nonna si recava nella casa di campagna a Grugliasco. Secondo il solito, un paio di volte al mese adoperavano la lisciveuse, una specie di lavatrice ante litteram, il cui utilizzo comportava una serie di operazioni tutt'altro che semplici: la donna di servizio e una contadina insaponavano la biancheria, quindi si recavano sotto un grande tasso (che svetta ancora in fondo al nostro giardino), per preparare una specie di detersivo (che oggi diremmo "biologico") predisponendo un fuoco con legna, scrupolosamente selezionata, onde ricavarne la migliore cenere, pena la comparsa di macchie. La lisciveuse aveva l'aspetto di una pentola sormontata da una specie di doccia e bisognava riempirla con la biancheria insaponata, che andava cosparsa con uno spesso strato della suddetta cenere. Dopodiché si riempiva d'acqua, si accendeva un fuoco alla base e, come una sorta di enorme caffettiera, riversando in continuo l'acqua in ebollizione sullo strato di cenere, consentiva il lavaggio degli indumenti sottostanti.  
Nella maggior parte dei casi per  fare il bucato significava affrontare almeno due giorni di lavoro molto duro, portando al fiume o al lavatoio i vestiti da lavare in grosse ceste, insieme a tutto l'occorrente per il lavaggio finale a caldo con la cenere (sgrassante poiché ricca di carbonati). Significava lavare contemporaneamente dalle sei alle otto lenzuola, più un paio di tovaglie grosse di lino, che poi andavano stese su robuste corde e dove c'era più sole. Significava tenere le mani continuamente a mollo in un'acqua gelida, stare per ore con la schiena piegata e, di conseguenza, ci si cambiava di rado. Ma soffermandoci a riflettere su questo aspetto è fin troppo facile ritenere che ci si lavasse ancor meno; si tratta infatti di convinzioni indotte da deduzioni superficiali, perché nonostante l'assenza di comodità non per questo si era meno ordinati. 
Mio bisnonno d'igiene personale se ne intendeva; basterà forse dire che era dermatologo, professore universitario e ispettore medico nelle case di tolleranza, ma dato che mi riferisco ad un tempo in cui shampoo e bagnoschiuma non esistevano ancora, il contenuto dei suoi lodevoli assiomi ruotava sempre intorno al sapone Acque Albule di Tivoli e a quello di Marsiglia. Questo non ci deve stupire: lavarsi con il sapone da bucato era cosa assolutamente normale (senza contare che in tempo di guerra ci si fabbricava il sapone con il sego o il grasso di maiale) e, se per le abluzioni quotidiane ci si lavava in camera da letto usando un catino pieno d'acqua, per il bagno, in mancanza di una vasca o di un semicupio, si adoperavano delle tinozze da bucato in cui ci si poteva immergere in posizione rannicchiata. Nel complesso cerimoniale del lavarsi non va mai dimenticato il problema dell'acqua calda che, nella migliore delle ipotesi, la si otteneva con uno scaldabagno in rame alimentato a legna, un oggetto meraviglioso nella sua semplicità, anche se il più delle volte si doveva riscaldarla in una pentola. A questo punto potrebbe sembrare paradossale sapere che, fra i suoi pazienti, le persone più in ordine fossero le donne di vita, dissimulate in un'eleganza da attrice e tradite soltanto da un profumo più vezzoso del normale.  
Fatti, signori e signore d'altri tempi: a guardia della sala d'aspetto sonnecchiava il vecchio Tell un enorme, mansueto cane da caccia. Basterebbe richiamare un anno qualsiasi e ritrovarsi in ambulatorio, per veder seduti nella stessa sala un'autista degli Agnelli, l'attore Ernesto Calindri, frati Maristi, ferrovieri e gente comune; la stessa sala che avrebbe accolto in seguito qualche reduce dalla Campagna di Russia, ufficiali tedeschi in borghese e partigiani con tanto di bombe a mano ficcate nella cintura. Comunque, sulla scena della scienza dell'igiene, quello che più fra tutti vorrei evocare è l'anno in cui Teresa "La Veja" sparì per qualche tempo. Non si sapeva che fine avesse fatto; di colpo tutti provarono quel senso di smarrimento che si vive quando manca qualcosa di essenziale, l'appuntamento che sembra eterno e scontato, come il sole che sorge, con quella donnina. Un po' come chi si accorge dell'assenza di quell'uccellino, che ad ore precise faceva una capatina sul davanzale, fintanto che la finestra non si fa più zitta. Così la biancheria si accumulava, si accumulava, finché un bel giorno di sole si presentò  in ambulatorio una sostituta. La sua figura si delineò  in controluce, ragione per cui risaltarono soltanto i capelli bianchi. Avanzò  trepida verso il mucchio di indumenti sporchi e mio bisnonno, che per qualche secondo stentò  a riconoscerla, fece capolino dalla porta dello studio domandando alla donna di servizio: chi ca  cola là? Era Teresa, ma qualcosa di strano l'aveva sconvolta nell'aspetto, come una malattia strana, capace di trasformare una donna anziana in una vecchia. Il suo viso sembrava intimidito e meno energico: sun staita all'ospidal, disse, e a l'an fame 'l bagnl'an lavame! Carica di modestia, semplicità e imbarazzo, retaggio di quell'antico pudore contadino, ormai dissolto, che mi spinge a voler riflettere sulla nostra mancanza di curiosità, piuttosto che a elogiare le abitudini terrestri di un mondo che non si vede più, o  a consolidare l'idea che i pregi e i valori del passato siano un patrimonio perduto. Perché è tornando ad essere curiosi, a partire dalle cose semplici, che ci si può  riappropriare della morale e dello spirito che il benessere materiale ha relegato in zone lontane, da dove tutto appare scontato e prevedibile come le istruzioni di una lavatrice. 

Francesco Albano 


4 commenti:

  1. Bellissima storia! se ne potrebbe fare un racconto.

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  2. Bellissima,mi hai fatto tornare a mente i ricordi della mia nonna paterna toscana e di quando da piccina mi portava alla fonte,dove c'erano vasche enormi e ci lavavano i panni,con la cenere per pulirli meglio.Che lavoro duro doveva essere.
    Laura

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  3. Grazie mi fa molto piacere. E' un nostro dovere ricordarli

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